Poi è arrivata la generazione di mezzo. Potremmo chiamarla la generazione del "buco nero". La generazione di quelle che furono adolescenti o giovani tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. Erano tempi di (e ce n'era un gran bisogno, davvero!) grandi cambiamenti, di rivoluzioni e di prese di coscienza. Le ragazze smisero di immaginare il loro futuro chiuso tra le mura domestiche e matrimoniali e, in massa, fecero quelle che prima solo poche avanguardie femminili avevano fatto: reclamarono il loro posto nella società.
La maglia venne in questo periodo identificata con un lavoro quasi umiliante, un lavoro "domestico" dalla cui gabbia opprimente e oppressiva le donne dovevano liberarsi se volevano affermarsi in un più vasto scenario sociale. La "regina della casa" in pantofole, alle prese con fornelli e ferro da stiro e con il lavoro a maglia posato sulla poltrona, unica via di fuga verso il relax, unico momento per sé che le era concesso (o che si concedeva), divenne l'antitesi alla donna moderna, aperta alla società e al lavoro.
Quasi come un paradosso, quello fu anche un momento di grande spolvero per il tricot, meglio se apparentemente rustico e molto colorato. Guardiamo al cinema italiano: da una parte gli scialli indossati da Mariangela Melato in Mimì metallurgico ferito nell'onore e le matasse di lana colorata appese alle travi del soffitto della sua soffitta-appartamento; dall'altra parte lo scialletto di Ornella Muti, giovanissima casalinga frustrata di Romanzo popolare, che non a caso passerà alla camicietta sintetica quando, alla fine del film, si emanciperà divorziando dall'anziano marito Ugo Tognazzi e trovando un lavoro.
Se, però, da un lato il rifiuto per il lavoro a maglia è giustificabile in quel contesto culturale e politico dalla necessità di spezzare talune gabbie, pure questo ha causato l'esitenza di un'immgine vecchia, domestica e addomesticata della donna che lavora a maglia (o all'uncinetto). Anzi, per le proprietà transitive della semantica, ha fatto sì che questa denotazione si fissasse in maniera profonda, comportando l'assenza di nuove leve della maglia ma anche che in Italia la maglia si orientasse su un gusto difforme da quello di un pubblico più giovane.
Oggi, quanto viene pubblicato sulle riviste del settore, con poche eccezioni, è mirato a una fruizione adulta, per bene che vada, se non anziana; a un gusto che non appartiene alle potenziali nuove leve. Così la denotazione di polverosa e muffosa vecchiaia è confermata dalla proposta di capi tradizionalisti senza nemmeno essere classici, vecchi nel gusto, nei colori e nella vestibilità.
La maglia venne in questo periodo identificata con un lavoro quasi umiliante, un lavoro "domestico" dalla cui gabbia opprimente e oppressiva le donne dovevano liberarsi se volevano affermarsi in un più vasto scenario sociale. La "regina della casa" in pantofole, alle prese con fornelli e ferro da stiro e con il lavoro a maglia posato sulla poltrona, unica via di fuga verso il relax, unico momento per sé che le era concesso (o che si concedeva), divenne l'antitesi alla donna moderna, aperta alla società e al lavoro.
Quasi come un paradosso, quello fu anche un momento di grande spolvero per il tricot, meglio se apparentemente rustico e molto colorato. Guardiamo al cinema italiano: da una parte gli scialli indossati da Mariangela Melato in Mimì metallurgico ferito nell'onore e le matasse di lana colorata appese alle travi del soffitto della sua soffitta-appartamento; dall'altra parte lo scialletto di Ornella Muti, giovanissima casalinga frustrata di Romanzo popolare, che non a caso passerà alla camicietta sintetica quando, alla fine del film, si emanciperà divorziando dall'anziano marito Ugo Tognazzi e trovando un lavoro.
Se, però, da un lato il rifiuto per il lavoro a maglia è giustificabile in quel contesto culturale e politico dalla necessità di spezzare talune gabbie, pure questo ha causato l'esitenza di un'immgine vecchia, domestica e addomesticata della donna che lavora a maglia (o all'uncinetto). Anzi, per le proprietà transitive della semantica, ha fatto sì che questa denotazione si fissasse in maniera profonda, comportando l'assenza di nuove leve della maglia ma anche che in Italia la maglia si orientasse su un gusto difforme da quello di un pubblico più giovane.
Oggi, quanto viene pubblicato sulle riviste del settore, con poche eccezioni, è mirato a una fruizione adulta, per bene che vada, se non anziana; a un gusto che non appartiene alle potenziali nuove leve. Così la denotazione di polverosa e muffosa vecchiaia è confermata dalla proposta di capi tradizionalisti senza nemmeno essere classici, vecchi nel gusto, nei colori e nella vestibilità.
3 commenti:
Come rappresentante della "generazione di mezzo" devo dire che non ho mai considerato il lavoro a maglia una delle oppressioni casalinghe. Ancora oggi odio stirare e spolverare, ma la maglia è sempre stata una fonte di relax e soddisfazione.
Mi meraviglia che in Italia la riviste siano rivolte principalmente agli "anta". Qua negli USA è decisamente il contrario. Riviste e libri sembrano indirizzati soprattutto a teenagers e ventenni.
Vedi, Francesca, ci sono de motivi per cui le magliste italiane cercano e comprano IK e Vogue Knitting ma nessuno in America cerca disperatamente l'ultimo numero di Diana Maglia (che perlatro è tedesca) o Mani di Fata... Questa ragione non è solo la lingua.
quello che trovo più interessante nell'approccio americano al lavoro a maglia è la ricerca della tecnica migliore per raggiungere un certo risultato, l'uso di schemi e costruzioni che capovolgono il nostro approccio tradizionale (4 pezzi dietro-davanti-maniche lavorati dal basso verso l'alto). Adoro B. Walker che ho scoperto da poco!
Vorrei dire che Mani di Fata si è svecchiata un pochino pochino...
Posta un commento